venerdì 27 febbraio 2015

Il potere dei sogni di Sepùlveda

Discorso tenuto il 16 aprile 2002, alla Biblioteca Nazionale di Santiago del Cile, nel corso della presentazione della casa editrice Crediamo ancora nei sogni

Sono emozionato, e l’emozione è una congerie di sentimenti che sgorgano dai ricordi, e abbiamo ricordi perché abbiamo memoria. Ricordo che, quando ancora non avevo diciotto anni, camminavo per le strade intorno alla Biblioteca Nazionale di Santiago del Cile con un enorme desiderio di entrare e di mettermi a leggere tutti quei libri che immaginavo accumulati sugli scaffali, libri che sentivo miei ma ai quali non avevo accesso, perché all’epoca un’odiosa direttiva burocratica impediva l’ingresso ai minorenni. Così la sede centrale della Biblioteca Nazionale era vietata ai più giovani, e dovevamo recarci in un edificio secondario, anche se non meno bello,in calle Companìa, vicinissimo a plaza Brasil.
All’epoca ero un ragazzo pieno di sogni, per questo militavo nella Juventudes Comunistas, perché la vicinanza di altri giovani sognatori moltiplicava i miei sogni. Alcuni erano sogni eroici, di lunga portata, altri erano minori, forse più domestici, più umili, più cileni.
In uno di questi dovevo procurarmi una copia della chiave di quel vecchio palazzone, della Sezione per ragazzi della Biblioteca Nazionale, in modo da entrare di nascosto e trascorrere un fine settimana senza altra compagnia che i libri.

Era un sogno borgesiano, nerudiano, rokhiano, a cui si univano poeti come Machado, Leòn Felipe, Garcìa Lorca, e gli scrittori che più leggevo, Coloane, Yankas (oggi non se lo ricorda più nessuno), Nicomedes Guzmàn, Baldomero Lillo, Juan Godoy, Sepùlveda Leyton e tanti altri da cui ho imparato che la patria è molto di più di una semplice bandiera.
In quegli anni felici, durante le lezioni di educazione civica, noi studenti visitavamo spesso il Congresso e la Camera dei Deputati. Là imparavamo come funzionava la nostra imperfetta ma esemplare democrazia, il potere legislativo si presentava come la colonna vertebrale del paese, e l’ardore dei discorsi pronunciati dai rappresentanti dei cittadini conferiva più forza ai nostri sogni. Visitavamo anche la Sezione per ragazzi della Biblioteca e, durante una di quelle gite, iniziò a prendere forma il più imperituro dei miei sogni.
Sognavo che tutti quei libri rinchiusi volevano parlare, che aspettavano il giusto interlocutore, e quello ero io. Sognavo che i libri mi parlavano con il loro linguaggio silenzioso, mi mostravano tutte le parole stampate sulle loro pagine, a una a una, ed esigevano da me una promessa: dovevo trasformarmi nel depositario, nel custode, nell’amoroso protettore delle parole. Allora io promettevo di vigilare che non perdessero mai il loro valore intrinseco, la loro capacità di dare un nome a tutte le cose e,a partire da questo, di farle esistere.

Non è facile veder realizzato un sogno, ma il mio, forse perché così ingenuo, così poco epico, così cileno, non incontrò grandi ostacoli. Un pomeriggio, grazie alle suggestioni del cinema, fregai alla bibliotecaria un mazzo di chiavi e, su uno stampo di cera, presi l’impronta di quelle che mi sembravano più importanti. Poi, rincorrendo alla collaborazione molto discreta di un amico che lavorava con il padre in un baracchino dove si facevano chiavi, all’ingresso del Portal Fernàndez Concha, ottenni una serie di copie che mi avrebbero aperto le porte della Biblioteca.
Ricordo, perché la mia testarda memoria di cileno non smette mai di ricordare, che un fine settimana comprai quello che mi sembrava il pranzo di fortuna degli scrittori: pane all’anice e latte. E’ bene dire che questa mia strana passione per il pane all’anice e il latte era condivisa da altri amici, il pittore Carlos Catasse, l’attore Jorge Guerra, l’intimenticabile “Selvaggio” Hugo Araya, e questo consente di dedurre che sono l’alimento base anche di pittori, attori e cineoperatori.
Quel fine settimana, provvisto di latte e pane all’anice – il migliore lo facevano nell’insuperabile panetteria La Selecta – aspettai nascosto in un cortile che il personale della Biblioteca si chiudesse alle spalle il portone principale e se ne andasse, e mi diressi verso l’ampia sala dove si allineavano scaffali e libri. Devo aggiungere che già mi avviavo a un destino di fumatore incallito e all’elenco dei generi di prima necessità si erano sommati due pacchetti di deliziose Liberty. Una delle chiavi aprì la serratura, così spinsi la porta ed entrai per la prima volta in quella che per me sarebbe stata, e ancora è, l’unica patria: la mia lingua e le sue parole.

Sceglievo un libro a caso, leggevo un paio di pagine, ne prendevo un altro; quelli noti mi lasciavano la piacevole impressione di aver incontrato un vecchio amico, quelli che non conoscevo stuzzicavano la mia fame di letture. E’ vero che l’avventura fu breve: appena due notti e due giorni chiuso nel vecchio palazzo, ma all’alba del lunedì uscii soddisfatto di aver realizzato un sogno, e con una grande scoperta: la generosità esisteva ed era un attributo del genere umano. Me lo rivelarono le parole annotate sulle prime pagine di alcuni libri: “Questo esemplare è una donazione proveniente dalla biblioteca privata dello scrittore e giornalista Hugo Goldsack”, “Questo esemplare è una donazione proveniente dalla biblioteca privata della professoressa e poetessa Escila Greve”, una lunga serie di volumi regalati per il piacere di tutti.
Sogno, credo ancora nei miei sogni, e un modo di crederci è ricordare quelle annotazioni. Sogno che un giovane scrittore si chiude in una biblioteca e trova un libro sorpendente, ecco perché molto tempo addietro ho rinunciato alla vanità di una biblioteca personale. Mi accompagnano qualche centinaio di volumi che sono per lo più di amici, o libri a cui torno di continuo. Ma vuoto sistematicamente i miei scaffali e regalo a varie biblioteche pubbliche i testi che a mio avviso è necessario condividere. E’ un gran bel modo di socializzare i sogni.
Sogno, non m’importa se una certa visione del lucro come unico traguardo dell’uomo stigmatizza i sogni e i sognatori. Mi considero un sognatore, ho pagato un prezzo abbastanza alto per i miei sogni, ma sono così belli, così pieni e intensi, che ogni volta tornerei da capo a pagarlo.
Credo che non ci sia sogno più bello di un mondo dove il pilastro fondamentale dell’esistenza è la fratellanza, dove i rapporti umani sono basati sulla solidarietà, un mondo in cui siamo tutti d’accordo sulla necessità della giustizia sociale e ci comportiamo di conseguenza.
I miei sogni sono irrinunciabili, sono ostinati, testardi, resistenti, e si antepongono all’orrere dell’incubo dittatoriale. La difesa di questi sogni è legata alla vecchia querelle fra il bello e il sublime, fra il bene e il male nel senso più pieno e profondo.

Una volta, una giornalista argentina amica mia intervistò un miserabile trafficante d’armi che ricopriva la carica di ministro nella nazione sorella, e a un certo punto gli chiese se credeva nei sogni. Il miserabile rispose di no e aggiunse che “quel problema” si curava con l’aiuto della psicoanalisi. Sicuramente esistono individui che temono i sogni, i sognatori e la capacità di sognare, ma i sogni e i sognatori sono una presenza inestirpabile.
Parlerò di un sognatore che ho avuto la fortuna di conoscere quando ero molto giovane  – si è molto giovani fino a diciott’anni, poi si è semplicemente giovani e, grazie ai sogni, si resta tali fino alla tomba- e come tanti altri lo aspettavo con ansia. Era un poeta spagnolo, repubblicano, rosso, chiamato Marcos Ana, che veniva a conoscere il Cile al fianco di Pablo Neruda.
Marcos Ana arrivava dal retroterra infame del carcere, dove aveva trascorso venticinque anni di reclusione. Non appena si fu lasciato alle spalle le porte del carcere di Carabanchel, a Madrid, si recò a casa di alcuni compagni, si fece la doccia, si mise altri vestiti, bevve un bicchiere di vino e subito andò a prendere un aereo che lo portò a Santiago del Cile.

All’aeroporto lo aspettava Neruda, perché ogni uomo o donna di buona volontà che arrivava in Cile sarà sempre accolto da Neruda, da Pablo invisibile, dissolto e presente nell’aria, nel fuoco e nel vino. Al parco Bustamente lo aspettavamo più o meno in quindicimila, quindicimila giovani cileni, quindicimila insuperabili sognatori poiché eravamo i militanti delle Juventudes Comunistas del Cile. Lo aspettavamo con tutto il nostro amore di giovani e di sognatori, con la nostra bocca addolcita da tutta la tenerezza che ispira la parola “Compagno”.
Sapevamo chi era quell’uomo fragile che, appena uscito dal carcere, aveva detto che i suoi sogni erano ancora freschi e puri come il primo giorno della Repubblica. Il dittatore, Franco, non li aveva toccati.
Franco, se per caso qualcuno dei giovani presenti in questa sala non lo sapesse, era un cafone di bassa statura e ancora minore altezza morale. Era un miserabile con un quoziente intellettivo di uno stupido ratto. E’ questa la caratteristica che accomuna tutti i dittatori, alla quale –lo sappiamo, eccome se lo sappiamo- si aggiunge quella di essere ladri di prima categoria. Una volta, alla fine degli anni sessanta, i suoi delatori lo informarono che i sovversivi stavano iniziando ad agire in modo terribile in Spagna: non mettevano bombe, non organizzavano scioperi, non incitavano all’incendio, ma proponevano apertamente di sognare una nuova realtà.
Quei sovversivi avevano volti e nomi: una donna bellissima, come solo le streghe possono esserlo secondo la Spagna cattolica e franchista, si chiamava Maria del Mar Bonet e con la sua voce plasmava i sogni democratici. Un altro, un anarchico da cui guardarsi secondo i libelli del regime, aveva nome Joan Manuel Serrat e con i suoi versi invitava a sognare mondi migliori e possibili; a loro si aggiungevano Lluìs Llach, Paco Ibànez e Josè Antonio Labordeta: “Verrà un giorno in cui tutti / alzando lo sguardo / vedremo una terra / chiamata Libertà”.

I dittatori hanno sempre un uomo di paglia alfabetizzato, un pennivendolo che, da un ‘ipotetica posizione al di là del bene e del male, fa da “intellettuale organico” al servizio del despota, sia con la voce sia col silenzio. Franco ne ebbe diversi, e uno di loro, ormai dimenticato nelle cloache della storia, redasse un manifesto di condanna dei sogni, perché questi, disse/scrisse sulla stampa del regime, erano una caratteristica tipica degli ebrei, dei comunisti e dei massoni. La Spagna cattolica e franchista non sognava e il pennivendolo, le cui parole si conservano dentro una provetta, in formaldeide, perché i batteriologi le studino quando non hanno a disposizione residui fecali, concluse così il suo manifesto: “I sogni non si realizzano mai, al massimo imputridiscono nella testa dei sognatori”.
Marcos Ana, dal carcere, rispose: “Sarà che i miei sogni spaventano il tiranno / come un lontano canto / come sepolte campane / come tutte le voci che non capisce. / Sarà che i miei sogni / di uomo e di Poeta / sono coperti dal ferro / che mi rinchiude la vita / e ora sogno spade allegre. / Sarà, mi domando / che ancora non capiscono / che incarcerarono l’uomo / perché non furono capaci / dell’assalto vincente / al forte dei suoi sogni / che con più forza lo fa sognare”.
I versi di Marcos Ana hanno avuto la meglio, sono rimasti nei ricordi, nella testarda memoria che ha reso possibile il recupero della normalità democratica in Spagna.

Anche noi condividiamo un bel sogno collettivo che è iniziato agli albori della storia del Cile come nazione, come paese, e che ha avuto la sua espressione più alta durante i mille giorni del Governo Popolare guidato dal compagno presidente Salvador Allende. La tragica e criminale interruzione di quel sogno condiviso non lo ha delegittimato, né tanto meno lo hanno spinto nell’oblio, anch’esso ha avuto la meglio nella memoria testarda, nella memoria ribelle di chi resisteva, delle donne e degli uomini che hanno portato avanti il più nobile degli impegni e si sono giocati tutto perché non venisse ingoiato dalle tenebre della dittatura. E’ grazie a loro se oggi siamo qui, nella Biblioteca Nazionale, e in loro onore affermiamo che i nostri sogni, esercizio del tassativo dovere di sognare, sono ancora vivi, forti e invitti.

Ho molto mondo, molta strada dietro le spalle, e in tutti i posti in cui sono stato ho scoperto le tracce di tanti sognatori come noi, oppure ho incontrato donne e uomini che sono una sorta di prolungamento dei nostri sogni, perché anche noi sogniamo i loro. Sì, non c’è possibilità di dubbio: i sogni sono la massima espressione dell’internazionalismo, del desiderio di rendere globale, planetaria, quella giustizia sociale che è la sostanza di tutti i sogni.
Posso citarne tanti, ma mi soffermerò in particolare su un uomo che è oggi un venerabile vecchio. Si tratta di Avrom Sutzkever, il Poeta Avrom Sutzkever, che dalla sua casa in Israele continua a sognare il mondo possibile dei giusti.
Sutzkever è nato e vissuto per una parte della sua vita a Vilnius, la capitale della Lituania, uno degli stati che si affacciano sul mar Baltico. Prima della Seconda guerra mondiale, Vilnius era una città vivace e accogliente, rappresentava con Parigi e Berlino una sorta di capitale europea dell’arte e della cultura. Einstein teneva spesso conferenze a Vilnius, Freud rese note le sue prime teorie psicanalitiche a Vilnius, Ejzenstejn parlò di cinema a Vilnius, Kockoschka fece a Vilnius le sue prime mostre. Era una città dove la vita era possibile, finchè non giunse la lunga notte dell’occupazione nazista e la bestia bruna eliminò quella vita splendente di sapere.
Gli ebrei vennero dichiarati subumani, maledetti, appestati, e condotti prima in un ghetto e poi, da là, nei campi di sterminio. Alcuni si ribellarono, fra cui Avrom Sutzkever, ma furono sconfitti e messi al muro.

Come avremmo visto accadere anni dopo in Cile, prima di essere fucilati dovettero scavarsi la fossa, e con la sua pala Avrom Sutzkever divise in due un verme. Perplesso, vide che le due metà continuavano a muoversi, che quel colpo mortale, invece di annientare la vita del vermiciattolo, l’aveva raddoppiata. Altri due colpi di pala lo divisero in quattro, ma il verme continuò a muoversi.
Allora il Poeta resistente capì che quell’essere così fragile, così vulnerabile, insisteva a voler vivere, era perché la sua natura gli diceva che, sia pure divisa in infinite parti, la vita restava possibile, e Avrom Sutzkever decise che sarebbe sopravvissuto.
Quando l’ufficiale delle SS dette l’ordine di sparare, si buttò nella fossa. Fu colpito da una pallottola, ma non a morte. Ferito, sentì che veniva coperto di terra e respirò appena, economizzando la poca aria rimasta tra il suo corpo e il fondo della fossa, attendendo finchè la sete di vita non gli disse che era ora di resuscitare, come Lazzaro.
Avrom Sutzkever divenne comandante dei partigiani ebrei, dei maquis del Baltico. Combattè mille volte contro i nazisti: le sue forze, i suoi guerriglieri, attaccavano e poi si ritiravano nei boschi. Divenne ben presto una leggenda e così un giorno un aereo russo atterrò oltre le linee tedesche con la missione di portare il Poeta comandante Avrom Sutzkever a Mosca. Là, al sicuro, gli fu tributato l’omaggio di grandi scrittori del livello di Il’ja Eremburg e Boris Pasternak; tentarono addirittura di assegnargli il premio Stalin, ma lui lo rifiutò perché giudicava la sua condizione di combattente intrinseca alla sua condizione di sognatore e poeta. Insistè sul fatto che il suo modo di agire era “normale” in tali circostanze, e quanto era normale non aveva bisogno di riconoscimenti particolari.
Pochi giorni dopo il suo arrivo a Mosca, chiese di essere riportato sui luoghi di combattimento, in prima linea, fra quanti lottavano contro il fascismo per difendere i sogni più puri dell’umanità. Naturalmente non venne compreso.

Il’ja Eremburg, dalla retroguardia, scrisse un’invettiva contro Avrom Sutzkever, in cui lo definiva un “sognatore demente” e lo accusava di rifiutare gli onori, la possibilità di dare il suo contributo come intellettuale antifascista, e di preferire invece l’avventura.
Quando conobbi questi dettagli della sua storia, capii che o i sogni sono accompagnati da una grande audacia, o smettono di essere sogni.
Se non siamo audaci, il che non è sinonimo di irresponsabili, se non siamo terribilmente audaci con i nostri sogni e non crediamo in loro fino a renderli realtà, allora i nostri sogni appassiscono, muoiono, e noi con loro.

Viaggiando in lungo e in largo per il mondo ho incontrato magnifici sognatori, uomini e donne che credono con testardaggine nei sogni. Li mantengono, li coltivano, li condividono, li moltiplicano. Io umilmente, a modo mio, ho fatto lo stesso.
Prima di tutto sono un cittadino e un uomo libero, poi sono uno scrittore. Credo che uno sia uomo prima di essere artista o scrittore, credo che uno sia responsabile prima di essere celebre, credo che uno sia giusto prima di essere famoso, perché in caso contrario l’arte, la celebrità e la fama non sono altro che scuse per non compiere i doveri dell’uomo e del cittadino.

Ogni volta che vengo in Cile mi è difficile parlare dei miei vecchi sogni invitti, ma per fortuna viene in mio aiuto lo scrittore, il narratore di storie attaccato a una memoria che amo. Un paio di giorni fa ho fatto visita a una scuola a sud di Santiago, nel comune di San Miguel, il mio comune, per incontrare gli studenti. Una bella ragazza di sedici o diciassette anni, davvero molto bella forse perché la sua bellezza era il riflesso dei suoi sogni, mi ha detto: “raccontami com’era quando andavi da casa a scuola alla mia età”. Allora mi sono servito di un sogno reale e ricorrente.
Nel mio sogno, esco di casa una mattina di pioggia, perché mi piacciono le giornate di pioggia a Santiago, perché le giornate di pioggia obbligano la città a ritrovare un’intimità perduta. La gente si avvicina, si tocca, accetta di condividere l’intimità di un ombrello, la complicità di un caffè o di un bicchiere di vino in qualche bar in cui si entra con il pretesto di aspettare che spiova. Le giornate di pioggia obbligano persino a parlare, a dire sciocchezze come “sta piovendo”, a nominare collettivamente la pioggia, con rabbia chi ha le scarpe rotte, con indifferenza chi possiede un buon impermeabile, con stupore chi viene dal Nord e porta ancora il deserto nello sguardo, con sprezzo chi viene dal profondo Sud, là dove piove davvero. In ogni caso, a forza di nominarla, la pioggia esiste, la parola stessa si trasforma in qualcosa di umido ed evoca come per magia le sopaipillas, quelle frittelle tanto cilene inventate per i giorni di brutto tempo.

Così, nel mio sogno, arrivo sotto la pioggia, fino a un angolo sicuro, sicurissimo, perché in quel punto si fermano veicoli enormi che sembrano lenti cetacei grigi.
Si fermano solo a quell’angolo, che è parte della mia routine di studente, della mia sicurezza di studente. Sul fianco hanno una scritta che dice: TRANSPORTES COLECTIVOS DEL ESTADO. La ETC era un’impresa statale che funzionava regolarmente e l’autista di quell’autobus, un uomo a suo modo simpatico, ci rendeva la vita impossibile chiedendoci “la tessera scolastica” che dava diritto – perché anche noi giovanissimi avevamo dei diritti acquisiti – a una tariffa ridotta da studenti. Quell’autista guidava con attenzione e ci trasmetteva un senso di sicurezza. L’autobus si muoveva pigro per le strade di Santiago e l’autista era protetto da un adesivo con sopra un’immagine sacra e la scritta: DIO E’ IL MIO NAVIGATORE. Quell’autista, inoltre, aveva la protezione di un contratto di lavoro, la sicurezza delle vacanze pagate, della pensione e di tutti i diritti conquistati dalla società cilena di cui era parte.
Quell’autista non doveva correre come uno psicopatico a pescare passeggeri per guadagnarsi il pane in base al numero dei biglietti strappati. Era protetto dai sogni di altri uomini che con i loro sforzi avevano reso possibile la realizzazione di altri sogni come il contratto sociale, il contratto di lavoro, la libertà di associazione sindacale, la possibilità di decidere insieme agli altri in che modo far funzionare la Santiago del Cilesocietà.
Salivo sull’autobus della ETC obbedendo alla confusa indicazione di SCORRERE NEL CORRIDOIO o AVANZARE VERSO IL RETRO, arrivavano in fondo al veicolo, fino al punto in cui un potente motore Mitsubischi faceva le fusa ed emanava un calduccio unico e irripetibile. Forse lì conoscevo una ragazza e, mano nella mano, ci meravigliavamo di Santiago sotto la pioggia, della nostra città persa nel Sud del mondo, o forse ci addormentavamo cullati dal rombo del motore e dal ticchettio delle gocce.
Una volta arrivati nelle vicinanze della scuola, azionavamo lo strano meccanismo formato da un campanello di bicicletta e da un lungo nastro che attraversava l’autobus. Allora il veicolo si fermava in un determinato punto, sempre lo stesso, a quella fermata che conferiva alla città dignità geografica, segno di identità, desiderio di organizzazione, senso dell’ordine civico.

Così andavamo a scuola con la certezza che al ritorno la città ci avrebbe risposto con la stessa serena efficienza, avremmo invariabilmente preso l’autobus della ETC che non sarebbe mancato all’appuntamento, perché il servizio era pagato dai nostri genitori, da tutti, e da uno Stato che confidava in noi, i giovani sognatori di allora, e capiva che era suo dovere proteggerci perché continuassimo a sognare e perché i nostri sogni diventassero realtà.
Questo viaggio che ho raccontato a una studentessa di San Miguel, lei non può raccontarlo nello stesso modo, perché la sua esperienza con i trasporti pubblici è, come per la maggior parte degli abitanti di Santiago, un continuo incubo: deve viaggiare su mezzi gestiti da criminali dell’imprenditoria sorta con la dittatura, su mezzi in pessime condizioni, e la sua vita dipende dalla volontà demenziale di chi scherza con la propria vita e di quella di tutti in nome del libero mercato.

A volte, in Europa, sogno il Cile. E nei miei sogni l’amato paese che non esiste più, se non protetto dalle frontiere della mia memoria, è un paese gentile, ordinato, fraterno, sicuro e con tutti i suoi sogni invitti.
Ma la natura dei miei sogni è testarda, e di questa ostinata testardaggine s’incaricano molte cilene e molti cileni che vedo ogni volta che faccio ritorno. La settimana scorsa ero nel profondo Sud australe, in Patagonia, un territorio a cui sono legato da un amore passionale, fortissimo. Non sono in grado di dire perché mi piaccia tanto la Patagonia, su entrambi i lati della frontiera, so soltanto che mi piace e che quando metto piede sotto il 42° parallelo mi sento bene, vivo e sognatore. Stavolta ero con un gruppo di piccoli pescatori, gente dalla vita durissima, sempre alla mercè delle multinazionali che saccheggiano il mare cileno, sempre disprezzati e abbandonati dai governi, che siano dittatoriali o recuperati alla democrazia.
Abbiamo ricordato un uomo, un uomo molto speciale, un uomo che era il mio compare. E’ fondamentale avere un compare o tanti compari nella vita. Oggi, in questa occasione, mi accompagna Victor Hugo de la Fuente, anche lui mio compare.

L’altro mio compare, il pescatore, il paragone, era un tipo di poche parole. Ci conoscemmo molti anni fa, uniti dalla militanza. Ci presentammo, ci stringemmo la mano, scambiammo due o tre parole, ci piacemmo e cominciammo a volerci bene; così, dopo aver bevuto un paio di bottiglie di vino parlando del mare lui mi disse: “Ho un bambino che deve essere battezzato; ti piacerebbe fargli da padrino?” io risposi di sì e allora la vita mi dette un compare, una comare e un figlioccio. Ampliò il mio universo familiare e affettivo.
Iniziai quindi a far parte di una famiglia australe che si reggeva sulla socialità, e quel che più ci univa erano i nostri sogni condivisi. Sognavamo un paese in cui l’università fosse aperta a tutti e l’istruzione non fosse un privilegio e questo sogno fummo sul punto di realizzarlo nel 1970. Sognavamo che il mare non si esaurisse mai, che la ricchezza di pesce giungesse su tutte le tavole, che gli uomini di mare potessero dire con orgoglio: “Sono un pescatore”.
Il mio compare, come ho detto, era un uomo laconico. Non sono mai riuscito a strappargli frasi di più di tre parole, eppure parlavamo per giorni interi, a volte con parole e a volte con silenzi. paesaggio della Patagonia
Una o due volte l’anno andavo a trovarli a Cionchi. La mia comare mi accoglieva sempre con affetto, mi abbracciava e subito mi mostrava le file di vasi in cui crescevano i gerani, quelle belle orchidee dei poveri che curava con il suo pollice verde. A quel punto arrivava il mio compare, e mi osservava per lunghi minuti e, conun tono di voce tranquillo per non tradire l’emozione che gli faceva brillare gli occhi, domandava: “Che vuoi mangiare?”.
“Lo sai” era la mia unica risposta.

Allora il mio compare s’infilava una serie di maglioni fatti a mano con la lana di Chiloè, avvitava lo scafandro sopra la tuta da palombaro mille volte rammendata e scendeva sul fondo del mare. Un aiutante o “segretario”, dalla barca, gli pompava aria al ritmo di una avemaria, e poco dopo il mio compare riemergeva, grondando acqua e alghe, bagnato di fulgori e naufragi, con qualche delizioso portento del mare che rallegrava la sua tavola, che onorava la sua tavola, e festeggiavamo circondati dall’incomparabile fratellanza della gente del Sud, dall’affettuosa ospitalità dei poveri del Sud.
Quando tornai dall’esilio, nel 1989, la prima cosa che feci fu andare al Sud, a vedere il mio compare e la mia comare. Gli avevo scritto molte lettere e a rispondere era sempre stata la mia comare. Mi raccontava, senza lamentarsi, di come andavano le cose, di come andavano male le cose durante la dittatura. Per bisogno, si erano visti costretti a vendere la casa di Chonchi ed erano emigrati più a sud, a Puerto Chacabuco, spinti dalla voracità delle grandi compagnie di pesca che si erano impadronite del mare cileno. In varie lettere mi aveva parlato dei gerani, intensamente rossi e riprodotti nel suo sogno di bellezza. In altre, mi aveva descritto il fascino violento dei fiordi, con un linguaggio molto economico, molto semplice, per nulla ampolloso, ma con una carica poetica stupefacente. E quando scriveva la parola “Fiordo” con l’iniziale maiuscola, io, in Europa, sentivo che mi parlava di una forza più grande e piena di speranza, di un sogno latente in salvo nell’immensità australe.
Sedici anni le avevano segnato il volto di rughe, i capelli non erano neri come un tempo, ma sorrideva con la stessa dolcezza di sempre mentre mi offriva un mate e mi parlava dei suoi gerani. A quel punto arrivò il mio compare, serio e parco di parole, come al solito. Si fermò a un metro di distanza, frenando con un gesto il mio desiderio di abbracciarlo, mi osservò, mi studiò a lungo e infine chiese:”Che vuoi mangiare?”.
“Lo sai” risposi abbracciando la moglie.
Si infilò la tuta da palombaro, avvitò lo scafandro di bronzo e scese sul fondo del mare. E come sempre, il mio compare riemerse bagnato di splendori e con un palpitante tesoro del mare che portammo sulla sua degna tavola.

Dopo parlammo e scoprimmo che condividevamo qualcosa di nuovo che si chiamava inventario delle perdite. Ci abbracciammo, piangemmo nominando tutti i nostri che non c’erano più e che ci mancheranno per sempre, i nostri amati fratelli di sogni che hanno dato la vita per la portata dei loro sogni. Piangemmo per tutte le compagne e per tutti i compagni sepolti in luoghi noti solo ai loro assassini o che furono lanciati, vivi e legati, in fondo al mare.
Ma dopo il pianto, una volta bevuto un buon bicchiere di vino pipeno, iniziammo a parlare dei nostri sogni e scoprimmo che erano sempre gli stessi, forti, irriverenti, indomabili, inflessibili, ostinati, necessari, indistruttibili.
Tutto questo e molto altro ha rafforzato la mia condizione di sognatore. Continuo quindi a essere un sognatore e la mia letteratura non può essere vista o compresa se non da questo punto di vista.

Le mie storie sono scritte da un uomo che sogna un mondo migliore, più giusto, più pulito e generoso. Le mie storie sono scritte da in cileno che sogna di veder realizzato in questo paese il sogno più bello, quello di sederci tutti con fiducia alla stessa tavola senza la vergogna di sapere che gli assassini di coloro di cui sentiamo la mancanza non ricevono il giusto castigo.
E questo sogno si concretizzerà il giorno in cui sapremo dove sono coloro di cui sentiamo la mancanza, perché scoprendolo la nostra memoria non avrà più aperte le ferite dell’incertezza, il balsamo della giustizia s’incaricherà di chiuderle e potremo continuare a sognare, perchè solo sognando e restando fedeli ai sogni riusciremo a essere migliori e, se noi saremo migliori sarà migliore il mondo.

Dalla mia modesta condizione di scrittore e sognatore, posso assicurarvi che un’iniziativa come quella che ci riunisce qui oggi – salutare l’esistenza di una casa editrice chiamata “Crediamo ancora nei sogni” – è una magnifica opportunità per rivendicare la giustizia di quanto s
ogniamo e vogliamo: sogniamo che un altro mondo è possibile e realizzeremo quest’altro mondo possibile. È bello ed esaltante essere convocati da una casa editrice, un collettivo umano che fa libri, perché la parola scritta è la grande depositaria dei sogni.

L. Sepulveda

Sepùlveda, Luis, Il potere dei sogni, Cles (TN), Ugo Guanda Editore S.p.A., 2006, pp. 5-21

1 commento:

  1. Scrivo per la necessità di resistere davanti all'impero dell'unidimensionalità
    Scrivo perchè credo nella forza militante della parola
    Scrivo per amore delle parole che amo e per l'ossessione di dare un nome alle cose a partire da una prospettiva etica ereditata da un'intesa pratica sociale.
    Scrivo perchè ho memoria e la coltivo scrivendo della mia gente, degli abitanti emarginati, delle mie utopie derise, dei miei gloriosi compagni e compagne che, sconfitti in mille battaglie, continuano a preparare i prossimi combattimenti senza paura delle sconfitte.
    Scrivo dalla solitaria barricata del creatore di mondi e, con le parole di Osvaldo Soriano, "dalla responsabile soddisfazione di chi sa di essere stato invitato ad abitare nel cuore della gente migliore"
    (L. Sepulveda)

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