Non è certo facile affrontare con umiltà un argomento così delicato in cui il rischio di assolutizzare e universalizzare la propria opinione personale è forte, e anche se personalmente non sono sicuro di evitare il suddetto rischio resto comunque convinto della possibilità, anzi della necessità, di trovare un minimo comune denominatore che permetta di iniziare un discorso che possa essere un po' più condivisibile rispetto alla mia pura e semplice opinione personale, a costo anche di sacrificare considerazioni più intime.
Dovrebbe risultare banale ricordare che un importante aiuto in questo senso viene dalla storia stessa dell'hardcore in Italia, una storia legata alle realtà dei centri sociali, alle pratiche dell'autogestione, dell'autoproduzione, dell'antagonismo e del "do it yourself, filosofie di vita, concetti e prese di posizione che trovarono la loro concretizzazione nell'occupazione di nuovi spazi, nell'organizzazione di concerti, nella redazione di fanzine come quella che avete per le mani e in mille altre attività.
E' evidente che in un tale contesto, comune per diversi tratti ad altre esperienze europee, non vi fosse spazio alcuno per ideologie di destra, inoltre bisogna considerare che anche esternamente alla scena, in una società italiana meno spoliticizzata e in un sentire comune non ancora stordito dalle sirene del revisionismo, l'antifascismo veniva percepito come qualcosa di più ovvio e scontato di quanto non lo sia oggi.
E' alla luce di queste riflessioni appena accennate che si possono riscontrare alcune distorsioni più o meno gravi e preoccupanti nella scena italiana dei nostri giorni.
Innanzitutto, come del resto per molti altri aspetti sociali e culturali, è in atto una continua re-importazione di culture, valori e concezioni d'oltreoceano (che a volte produce elementi anche peggiori degli originali), persino di quelli precedentemente già acquisiti ma che avevano già tracciato nel locale una propria distinta e irripetibile strada, come nel caso dell'hardcore. E' evidente che un siffatto spostamento verso un modello di società basata in larga parte sul consumismo e l'esteriorità, che riposa tra l’altro sul disprezzo e sul rifiuto aprioristico di qualunque ideologia, non può non avere ripercussioni all'interno della scena. E non si tratta banalmente di un problema di moda o di stile, semmai questi costituiscono gli aspetti visibili della questione, il danno più grande risiede in profondità, nella strisciante spoliticizzazione e nel crescente sentimento individualista (e consumista) che alla lunga finiscono per spalancare le porte dei concerti a soggetti ambigui, in un ambiente frammentato e in cui, banalizzando ma poi neanche troppo, consistenti strati sono più preoccupati dall'ultimo modello di scarpa da inseguire piuttosto che da determinate presenze.
Ma la questione principale a mio avviso non è neanche tanto quella della presenza fisica, a sua volta conseguenza e parte “visibile” del fenomeno, quanto la legittimazione che di fatto scaturisce da un ambiente blandamente ostile se non indifferente, rispetto ad una sorta di appropriazione del concetto di hardcore per cui l’etichetta hardcore “di destra” diventa una definizione come un’altra, sicché così come abbiamo l’oldschool, il thrashcore, il grindcore ecc un giorno potremmo aspettarci (se già non esiste) l’hardcore neofascista. Ma a quel punto temo nessuno si scomporrà più di tanto (la pettinatura).
Indubbiamente si tratta di scenari ancora ipotetici o limitati a realtà per ora circoscritte, ma è evidente che il fenomeno rischia di ampliarsi parallelamente alla progressiva spoliticizzazione della scena e della società nel complesso, anche tenendo presenti le crescenti difficoltà degli spazi sociali, la cui sopravvivenza è sempre più a rischio, e al conseguente spostamento verso locali e situazioni più neutre, spoglie e disinteressate, per tacere di quelle più propriamente “sospette”, dal punto di vista dell’ambiente e del significato politico.
Con questo non auspico certo la “militarizzazione” della scena nè tantomeno la riduzione dell’hardcore a mero sloganismo, personalmente rispetto, e anzi sposo nel mio piccolo, una certa lettura introspettiva/intimista, l’importante però è che questa si inserisca in una cornice più attenta e consapevole rispetto a certi temi e che anche nel momento di maggiore ricerca interiore e musicale si sappiano tener fermi determinati punti.
La “soluzione” non è l’ottusità ma la consapevolezza, certamente anche del fatto che a volte è necessario dare segnali forti, a costo di sacrificare la propria creatività ed espressività.
Prof (Lyon Estates)
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