martedì 30 aprile 2013
Dove vanno gli italiani?
Intervista ad Alessio Arena, autore del libro "Dove vanno gli italiani?"
Dove vanno gli italiani? Lotta di classe nell'era dell'autoritarismo tecnocratico. Oggi la nostra classe è disorientata e forse non sa più qual è il suo nemico. Uno storico alleato, a fasi alterne, deriva dai post PCI. Oggi Fassino parteggia per Marchionne durante il referendum Fiat, Napolitano orchestra l'operazione Monti prima, Letta poi, che ha portato, tra le tante cose, la cancellazione dell'Art.18. Dunque: lotta di classe contro chi e per fare?
La lotta di classe è in questo periodo oggetto di numerose riflessioni. Pare quasi che la crisi economica abbia svolto la funzione del bambino della fiaba "I vestiti nuovi dell'imperatore", che con la sua candida esclamazione "Il re è nudo!" svela alle masse quello che era sempre stato sotto i loro occhi. Noi comunisti siamo consapevoli che la lotta di classe è un dato oggettivo della storia, derivante dai rapporti strutturali tra le classi sociali, e quindi non ci sorprendiamo quando assistiamo alla brutalità con cui, ad esempio, la forza pubblica ha reagito alle proteste dei lavoratori della regione Sicilia a Palermo, dove nella notte precedente il giuramento del governo Letta si è sfiorata la tragedia per via dell'esplosione di colpi di pistola ad altezza d'uomo da parte di alcuni carabinieri. E non ci stupiamo nemmeno quando Marchionne, nella gestione degli stabilimenti FIAT liquida la contrattazione con il sindacato ed espelle i delegati della FIOM dalla fabbrica, rifiutandosi poi di ottemperare alle sentenze di reintegrazione emesse dalla magistratura. Siamo in presenza di momenti fortemente connotati dal sovversivismo delle classi dominanti, ma pare che gran parte degli italiani reagiscano a queste espressioni tutt'altro che sorprendenti del conflitto tra capitale e lavoro come svegliandosi da un sogno, sorpresi di quello che vedono materializzarsi loro davanti. Nemmeno questo però è una sorpresa. Ne "L'imperialismo, fase suprema del capitalismo", Lenin analizzava già compiutamente la tendenza del capitale a finanziarizzarsi, così come indicava come il principale pericolo per il movimento operaio quello derivante dalla tendenza del suo avversario di classe a favorire il sorgere di aristocrazie operaie che non distinguessero più la loro posizione nella gerarchia sociale e che dunque fornissero la base per un processo di corruzione e di attrazione nell'orbita egemonica della borghesia delle stesse organizzazioni proletarie, politiche e sindacali. Il tutto, diceva sempre Lenin, nel contesto della delocalizzazione della produzione e della trasformazione della metropoli capitalista in un insieme di Stati usurai (il tema del debito affrontato già nel 1916!). Se pensiamo a quello che è avvenuto al PCI, al suo processo di corruzione e infine al suo annientamento, dobbiamo riconoscere quanto corrette fossero le osservazioni di Lenin in proposito, d'altra parte già verificate tramite lo studio del degrado che agli inizi del XX secolo investiva la socialdemocrazia europea. "Il re è nudo", dunque. La crisi ha fatto infine giustizia delle illusioni di benessere e progresso generate negli anni '80 e '90 dalla vittoria dell'ideologia della fine della Storia, in Italia incarnatasi appunto nello scioglimento di un Partito Comunista ancora potentissimo e radicato nella società. Gli italiani (e gli altri popoli dell'Occidente) si risvegliano dal torpore ma, al contrario di alti popoli, noi ci ritroviamo del tutto disarmati di fronte alla miseria che avanza e divora un livello di vita che larghi strati della popolazione davano per scontato perché convinti (soprattutto grazie alla liquidazione dell'espressione politica della lotta di classe e all'affermazione del mito della "concertazione sociale" da parte del sindacato) di vivere nel migliore dei mondi possibili.
Il 25 aprile è morto, è tradito o si è solo svuotato di contenuto politico? Oggi assistiamo al tentativo di equiparare i partigiani con i repubblichini, si tenta di valorizzre il "fascismo buono". E in tanti si chiedono il senso dell'antifascismo in assenza del fascismo. La lotta di classe che legame ha e dovrebbe avere con la lotta partigiana?
Il legame dell'antifascismo con la lotta di classe è profondamente legato alla natura della fase storica aperta dalla Rivoluzione d'Ottobre: la fase in cui gli oppressi del mondo intero si riappropriano delle redini dei propri destini, della possibilità di scegliere che direzione far prendere al proprio futuro. Un'altra Storia, quella aperta dall'Ottobre, che porta tra i fatti concreti del mondo la rivoluzione socialista come strumento per unificare l'umanità nella sua lotta per la vita e la felicità. La "fine della preistoria dell'Uomo", come l'aveva chiamata Marx, con la rivoluzione dei soviet cessa di esistere solo come aspirazione e diventa prospettiva concreta. Di qui il fascismo come reazione organizzata delle classi dominanti, tesa a difendere lo stato di cose presente e ad orientare a proprio vantaggio le energie sprigionate dal nuovo protagonismo politico delle masse popolari. E se è vero che la sconfitta del fascismo comincia con il crollo delle forze dell'Asse a Stalingrado (e non con lo sbarco degli anglo-americani in Normandia), allora bisogna prendere coscienza di come non sia stata una casualità della Storia se, finita la guerra, le "liberal-democrazie" che pure ne erano uscite vittoriose (Regno Unito, Francia, Belgio, a loro modo gli Stati Uniti...) perdono mano a mano i loro imperi coloniali, travolti da insurrezioni popolari guidate da dirigenti rivoluzionari formati dal marxismo come Ho Chi Minh, Fidel Castro, Kwame Nkrumah, Sékou Turé, Lumumba e altri ancora. Un processo non ancora esauritosi malgrado la caduta del Muro di Berlino, come testimoniano le rivoluzioni progressiste e socialiste in atto in America Latina. In Italia tutto questo si è legato, come naturale, alle specificità della nostra Storia nazionale, e in primo luogo all'esito gerarchico, classista e colonialista con cui si era conclusa, nel 1861, la lunga lotta risorgimentale per unificare il paese. Un processo, quello del Risorgimento, che ha visto le correnti democratiche della borghesia rappresentate dai Garibaldi, Pisacane, Cattaneo, sconfitte dalla borghesia liberale e dai suoi alleati sul piano sociale. Da quell'Italia, l'Italia dei Savoia e dei Cavour, avrebbero avuto origine le guerre colonialiste e il fascismo, nel quadro internazionale determinato appunto dalla fine della Grande Guerra e soprattutto dalla Rivoluzione sovietica. L'antifascismo italiano è stato dunque l'incontro della rinata borghesia democratica, alleata naturale delle classi oppresse, con il nuovo protagonista assoluto della Storia nazionale: la classe operaia organizzata in primo luogo nel PCI. La Resistenza, significativamente iniziata con il grande sciopero operaio del marzo 1943, e la Liberazione sono da considerarsi così come passaggi tesi a ingenerare una rottura nel tessuto storico italiano e a segnare una discontinuità con l'Italia così come concepita nel 1861. Una rottura che raggiunge il suo apice con la Costituzione repubblicana che apre la via alla trasformazione progressista della società nazionale proprio perché prodotto ultimo dei rapporti di classe favorevoli creatisi grazie al protagonismo della classe operaia e dei suoi alleati nella Resistenza, che era lotta di classe in quanto lotta contro la borghesia imperialista diventata antinazionale e che infine aveva trascinato il paese alla rovina con il fascismo e la guerra. Di qui il carattere di forte attualità dell'antifascismo e la vitalità del 25 Aprile, giornata di tutti gli italiani che vogliono per il proprio paese l'avvenire di pace, giustizia sociale e indipendenza scritto nella Costituzione. E tanto più attuale appare tutto questo, se pensiamo all'impegno con cui i manutengoli del capitalismo finanziario, a cominciare da Giorgio Napolitano, Luciano Violante, Massimo D'Alema si sono indaffarati ad affermare a ogni passaggio invece l'assoluta continuità della Storia nazionale rispetto al 1861 e a legittimare il fascismo al suo interno come componente di una società lacerata da ricomporre dentro il contesto dell'integrazione europea e della Nato, i due frutti avvelenati della Guerra Fredda e del suo contenuto reazionario, antitetico a quello dell'antifascismo e della Costituzione da esso nata.
La costituzione italiana, seppur non attuata a dovere, è un simbolo della resistenza quotidiana. Uno degli obiettivi della rivoluzione venezuelana fu quello di scrivere una nuova costituzione, in Italia un nostro obiettivo è salvaguardarla. Anche in questo si nota la differenza tra una fase progressiva e una regressiva? E che importanza ha e deve avere la costituzione, questa costituzione, in uno scontro tra classi?
Scrivere una nuova costituzione è un momento rivoluzionario fondamentale, quando le masse popolari si appropriano delle redini dei propri destini, perché è un modo concreto di utilizzare il potere politico per modificare i rapporti sociali. Non a caso la costituzione bolivariana è, come la nostra, una costituzione lunga, cioè una costituzione che si prende carico dell'insieme delle relazioni politiche, economiche e sociali sulle quali si ripromette d'incidere. All'esatto opposto troviamo, ad esempio, la Costituzione degli Stati Uniti, una tipica costituzione liberale corta, che lascia a quella che sarebbe poi stata chiamata la "mano invisibile" di regolare i rapporti sociali. Anche la prima costituzione italiana, lo Statuto Albertino, era una costituzione assai breve, che però individuava come principi fondamentali "la vita, la libertà e la proprietà". Una differenza abissale rispetto alla Costituzione repubblicana, che sancisce la tutela della proprietà e dell'iniziativa economica private, ma purché indirizzate a fini sociali, assegnando alle istituzioni dello Stato di stabilirne i programmi, mentre in testa, come principio fondamentale, pone all'articolo 3 l'uguaglianza sostanziale dei cittadini da concretizzare nell'accesso di tutti i lavoratori alla gestione del potere. Certamente la difesa della Costituzione è per noi un obiettivo di resistenza, soprattutto considerando di quanto più favorevoli alle classi popolari fossero i rapporti di forza sociali e politici determinatisi durante la Resistenza. Difendere la Costituzione significa lottare per tenere vive le possibilità che essa apre all'estensione del potere popolare inteso proprio in un'ottica di classe. Una questione di potere non a caso individuata come prioritaria dello schieramento reazionario, da Letta a Berlusconi (che definì la nostra una "costituzione sovietica") passando per Monti.
Si può scindere la lotta di classe dall'antimperialismo e che ruolo dovrebbe avere oggi? Siamo passati, uso tue parole, dalle missioni civilizzatrici del vecchio colonialismo alla democratizzatrice dei paesi non allineati con il consenso della nostra nazione e con i comunisti che spesso hanno mostrato di avere grosse contraddizioni sul tema internazionale, da sostenere o denunciare, ad esempio rivoluzioni colorate.
L'imperialismo è una fase precisa dello sviluppo del capitalismo. Averla analizzata correttamente è forse il lascito teorico più importante di Lenin. Esso è la fase della finanziarizzazione dell'economia, dell'esportazione del capitale, della spartizione del mondo tra i grandi trust e dei territori tra le nazioni più potenti. Un richiamo che può sembrare scontato, ma che evidentemente non lo è per una sinistra italiana, immemore, completamente soggiogata dall'egemonia del Capitale a livello ideologico. Sicché nel 2011 abbiamo dovuto assistere al triste spettacolo di alti dirigenti del nostro partito intenti a sventolare sotto l'ambasciata libica i tricolori colonialisti dei ribelli del CNT, mentre le potenze atlantiche si preparavano a dilaniare il paese nordafricano proprio nell'ottica di quella spartizione della superficie mondiale già descritta da Lenin. Una complicità di fatto dalla quale l'opposizione "pacifista" all'intervento militare contro Gheddafi non vale certo ad emendarci. Non è un caso, né è stato per calcolo geopolitico se tutte le nazioni antimperialiste, e in testa quelle dell'ALBA, si sono invece schierate con il governo libico contro l'eversione finanziata e armata da USA, Francia, Regno Unito e Italia (con qualche iniziale ambiguità ben motivata da interessi particolari subito sacrificati da Berlusconi - ancora una volta sotto l'attiva pressione di Napolitano - per accodarsi ai predoni più muscolosi di noi). Certamente è sconcertante misurare nella retorica che accompagna imprese guerrafondaie come quelle contro la Libia, la Siria, la Costa d'Avorio o il Mali lo stesso frasario, la stessa violenza culturale del colonialismo tradizionale, del "fardello dell'uomo bianco di Kipling". Certo, con la convenzione terminologica di sostituire l'esportazione della "civiltà" con quella della "democrazia". Sottigliezze dell'ideologia guerrafondaia e razzista nella quale viviamo immersi e alla quale settori ampiamente prevalenti della sinistra hanno infine ceduto su tutta la linea.
"Arginare la rottura della connessione sentimentale tra i comunisti e la classe" dovrebbe supporre che i comunisti abbiano una credibilità per la classe, quando, allo stato attuale questa non c'è tra gli stessi militanti e simpatizzanti. Le divisioni, le scelte errate, ma soprattutto le continue diatribe e la mancanza di una prospettiva creano una rottura. Come si può dunque arginare questa connessione sentimentale se non si risulta minimamente credibili nella forma, ancor prima della sostanza?
È proprio il cuore del problema che noi comunisti italiani ci troviamo ad affrontare. La soluzione non potrà venire che da un ripensamento collettivo, da un'autocritica profonda rispetto agli ultimi decenni nel corso dei quali abbiamo depauperato il patrimonio di credibilità conquistato da chi ci ha preceduto al prezzo di un alto tributo di sangue. In un'applicazione in negativo del rapporto prassi-teoria-prassi si può dire che pratiche politiche e sociali sbagliate si siano tradotte, nel passato recente dei comunisti italiani, in un processo di snaturamento teorico che ha profondamente alterato la composizione sociale della base del movimento comunista, spostandone il baricentro dalle classi lavoratrici al ceto medio. Questo ha prodotto un cambiamento sostanziale nella percezione della realtà, traducendosi in nuovi scivolamenti verso pratiche distanti dalle attese delle nostre classi di riferimento. I risultati, dopo anni di compromessi al ribasso con il centrosinistra e di abiure ideologiche (quelle che hanno contraddistinto, per intenderci, l'era Bertinotti), possiamo misurarli anche solo limitandoci alla superficialità dei risultati elettorali della Sinistra Arcobaleno prima e di Rivoluzione Civile poi. Entrambi però esperimenti significativi per il loro profilo ideologico, tutto rivolto a intercettare il consenso d'opinione del ceto medio: il primo toccando le corde del pacifismo e dell'ecologismo, il secondo blandendo le pulsioni legalitarie. Recuperare è possibile. La Storia insegna che nulla è per sempre, e il nostro declino non fa eccezione. Ma ci vorrà un lavoro di lunga lena, politico e ideologico. E dovremo elaborare per il nostro comunismo rifondato un profilo programmatico, riannodare i fili della sua concezione della Storia nazionale e del mondo, delle relazioni sociali e delle vie per la loro trasformazione. Chi propone scorciatoie illusorie attraverso "processi costituenti della sinistra antiliberista" o simili, non fa che spingere i comunisti, e con essi la questione della trasformazione della società, dell'abolizione dello stato di cose presente di cui siamo rimasti gli unici promotori nel quadro politico italiano, dalla residualità nella società a quella in uno spazio ancora più delimitato, dentro il quale essa non potrà che appassire e morire. Lo dimostrano tutti gli esperimenti storici fin qui tentati di "allargamento a sinistra": quella della "sinistra" è oggi la categoria della rimozione dalla dialettica politica della questione della trasformazione sociale.
"Il partito comunista ha dunque il dovere, in questo momento storico, di diventare lo strumento dell'elevazione delle classi lavoratrici a classi nazionali e deve corrispondere ai compiti derivanti nella teoria e nella pratica". Socialismo e sovranità nazionale sono un binomio obbligato?
Quello della sovranità nazionale è un terreno decisivo di lotta, che definisce la differenza tra le posizioni comuniste e numerosi filoni opportunisti (ad esempio il terzomondismo che tende a deresponsabilizzare i popoli della metropoli capitalista e, mentre esalta le lotte di liberazione che si combattono ad esempio in America Latina, liquida come sciovinista ogni rivendicazione patriottica alle nostre latitudini). Non per nulla Togliatti ci ha insegnato a considerare la Resistenza, che aveva il contenuto di classe cui accennavamo prima, come il secondo Risorgimento d'Italia. Il passaggio fondamentale - ed è anche la lezione che viene da processi come quello venezuelano che citavamo prima - è capire che se la borghesia monopolistica nella fase dell'imperialismo spezza il legame con la nazione e la trascina alla rovina in funzione dei propri interessi egoistici, quello nazionale non cessa di essere il terreno della lotta per il potere politico - l'unico terreno possibile - e diventa al contrario il contesto dell'emergere delle classi lavoratrici come classi nazionali, ovvero come unici soggetti sociali in grado di dirigere la nazione verso la salvezza e il progresso. È questa visione della questione nazionale a fondare l'internazionalismo, il quale, come dice la parola stessa, si fonda sul riconoscimento delle diverse specificità nazionali come parte integrante e contributo indispensabile al processo di liberazione umana. La connotazione antinazionale della borghesia monopolistica in passato si è manifestata, in Italia, con il fascismo e la partecipazione da esso voluta alla II Guerra Mondiale. Oggi un terreno assai rilevante nell'ottica della distruzione della nazione, della negazione della sua sovranità e quindi della dissoluzione del terreno dello scontro tra le classi per il potere politico è l'Unione Europea con le sue istituzioni tecnocratiche e mercantiliste. D'altra parte basti pensare a quanto in sede UE si spende per la cosiddetta "Europa delle regioni", cioè per la disgregazione dall'alto degli Stati nazionali attraverso l'incentivazione delle autonomie locali, per rendersi conto della vera e propria manovra a tenaglia condotta dai settori dominanti della società contro la sovranità nazionale. Proprio la lettura falsata del contenuto di classe dell'UE è uno dei dati più allarmanti che si registrano nel movimento comunista italiano di oggi (ricordiamo che il culmine ne è stato il voto favorevole del PdCI alla Costituzione europea del 2005, poi bocciata dai popoli di Francia e Paesi Bassi). Molto si potrebbe parlare a questo proposito anche della battaglia, di fatto lasciata cadere, contro la partecipazione dell'Italia all'Alleanza Atlantica e del tema collegato della presenza di 113 basi e installazioni militari straniere sul nostro territorio (da ultima il MUOS). Pur non volendo omettere di farne menzione per la sua importanza decisiva, quello che però mi pare prioritario è sottolineare il nodo teorico fondamentale che lega tutte queste questioni aperte all'attuale fase di sviluppo del Capitale e alle sue ripercussioni nelle relazioni internazionali. Problemi che non possono essere affrontati in un'ottica "pacifista" o "nonviolenta", pena l'inevitabile incorrere in errori decisivi e fatali.
Andrea 'Perno' Salutari
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