domenica 8 maggio 2011

Punk, figlio ribelle di una generazione arrabbiata

Articolo tratto da CasaPerno&Zora #12 (2008)

Fino agli inizi del secolo scorso, la musica era prevalentemente un bene di consumo riservato alle elitè (eccezion fatta per i canti popolari, che non avevano però dignità accademica). Ma è con la diffusione delle registrazioni fonografiche che il popolo comincia ad appropriarsi di codesto linguaggio. I primitivi canti del proletariato suburbano e contadino iniziano ad articolarsi in tecniche, forme e contenuti nuovi. Generi come il blues o il jazz escono dai ghetti in cui avevano gestato per due secoli ed iniziano una loro evoluzione inter-razziale e di massa. I bianchi dei quartieri operai, i giovani che vivono il disagio di una società stantia e patriarcale si ritrovano in molte delle problematiche intrinseche nelle "lamentazioni degli Afro-americani", se ne appropriano e le mutano nella forma più inerente al loro orizzonte culturale. Nasce così dopo un travaglio di circa quattro decenni, la musica rock, espressione di ribellione ai costrutti sociali dell'uomo occidentale.
Passano gli anni ed in almeno un ventennio questa musica che doveva essere semplice, popolare, ribelle, si imborghesisce, diventa la colonna sonora dei salotti bene, sempre più raffinata, ricercata: i suoi cantori vivono come divinità in ville che assomigliano sempre di più a dei tabernacoli, immensamente lontani dalle matrici proletarie da cui provengono.

Il disagio, il degrado, la povertà, l'emarginazione rimangono così privi della loro voce, impotenti, traditi dalle gole che dovevano modulare il loro lamento. Monta la furia, la rabbia, la voglia di impossessarsi di uno strumento musicale anche se non se ne conosce il funzionamento; ed ecco che il lamento muta in grido selvaggio. Si denuncia il tradimento del Rock, padre vecchio e malato che concepisce un figlio inquieto, la sua antitesi, la sua negazione, il suo assassino.
L'onda del punk travolge inarrestabile convenzioni, schemi, istituzioni che il rock non aveva neppure immaginato di sfiorare. La musica è proletaria, proletari sono i problemi. I proletari possono e devono cantare la loro rabbia anche se non sanno suonare. Poco importa se il risultato è esteticamente poco bello: degrado ed emarginazione non possono essere descritti con sofisticati bizantinismi. Bisogna sbattere in faccia tutto il disgusto per le realtà quotidiane, per le esecrabili fondamenta su cui poggia il ventre molle dell'impero borghese. Disgustare diventa la parola d'ordine, annientare i parametri dell'estetica borghese (e per estetica si intende la visione stessa della realtà borghese, indi la realtà borghese stessa), recuperare ciò che il consumismo scarta perchè sgradevole e poco funzionale ai dogmi dell'immagine, rivalutarlo in nuove forme e visioni del bello e dell'essenziale, dare nuove funzioni ai vecchi oggetti (gli anfibi, misere scarpe a basso costo, calzature da lavoro, diventano pratici indumenti di tutti i giorni, così come le economiche catene sostituiscono la costosa gioielleria o la bigiotteria che ne riproduce le forme). Rivive il motto della scapigliatura milanese che un secolo prima in Italia ,di fronte all'autoritarismo ed ai tradimenti del neo-unificato regno, gridò: "NON TROVANDO RAGION D'ESSER NEL BELLO, NOI CI ABBRACCEREMO AL BRUTTO".

La scintilla si accende, quasi inconsapevole nel cuore dell'impero. E’ il 1974 e i Ramones (dei quali chi vi scrive ebbe la fortuna di assistere al concerto del ventennale nel 1994) imbarbarendo quelli che erano i normali archetipici estetico/musicali del rock 'n roll made in U.S.A. creano senza saperlo quello che sarà il terremoto generazionale che scuoterà i rapporti sociali del XX secolo molto più a fondo di qualunque altro aggregato subcultura giovanile che fino ad allora si era sviluppato in infinite varianti dalla seconda metà degli anni ‘90.
La vita non è un raggio di sole, la vita non è amore e di conseguenza non è amore "tutto ciò che voglio”!

"Quello che voglio è qualcosa di totalmente nuovo, in quanto mai così chiaramente rivelato, quello che voglio è poter dire che il mondo che mi avete costruito intorno mi fa schifo, quello che voglio è poter odiare le regole e le loro risultanti che mi avete imposto, rubandomi la possibilità di scegliere; schiavo delle vostre decisioni, dei vostri pregiudizi, dei vostri valori, delle vostre ipocrisie; "tutto quello che voglio è odio".

Dai testi ancora ingenui pur nella loro disillusione dei primi pionieri americani, trasferendosi in Inghilterra, nel cuore della vecchia Europa che si prepara all'avvento della signora Tatcher, la nuova creatura prende quello che in maniera pomposamente marxiana, potremmo definire coscienza di se, delle sue origini, del suo substrato finanche della sua classe. Una classe che in nessun altro luogo come nella patria della prima rivoluzione industriale, assaggia da sempre sulla sua pelle i morsi del progresso. Una classe priva delle aspettative del grande sogno liberale, in cui in esso non è previsto nessuno spazio nè futuro. Una classe che non cerca il dialogo conciliante in quanto consapevole di non essere mai stata veramente ascoltata, ma che ora vuole limitarsi solo ed esclusivamente a dire la sua, fiera ed orgogliosa.

NOI CI ABBRACCEREMO AL BRUTTO cambia e si evolve, diventa prima persona conscia, diventa: NOI SIAMO IL BRUTTO, siamo tali per la nostra condizione, siamo tali perchè tali ci avete reso voi, ergo NOI VI ODIAMO, NOI ODIAMO TUTTI.

Tranne rare eccezioni (divenute poi più frequenti negli anni ‘90) si caratterizza dal punk inglese un discorso ben consapevole di essere destinato ad attirare l'antipatia delle classi egemoni perchè mira a scardinarne alle fondamenta le sue stesse radici, mira ad abolire fino al più semplice dei parametri interpretativi quello "stato presente di cose" da cui ha avuto origine. Non l'annoiata e retrograda provincia americana, ma le periferie metropolitane delle aree industriali che pulsano la loro inquietudine sotto i casermoni di cemento che le caratterizzano. La musica terribilmente distorta, propria di un orecchio che ben conosce le cacofonie del mondo della manodopera a basso costo, dei lavoratori in serie che soppiantano definitivamente l'artigianato dal secondo dopoguerra. Non è il pietismo ipocrita della guerra del Vietnam... la prima guerra umanitaria della storia che colora il nuovo linguaggio, è brutale, violento, volgare. L'eccesso nel vestire simbologie forti, il richiamo al sesso esplicito, sono la metafora di tutto ciò che avviene tra le mura domestiche di una casa bene di Kensington,come nei corridoi del potere a Buckingam Palace, ma non viene detto, se non debitamente addolcito, anche nelle sue connotazioni peggiori.

L'elogio della rivolta viene cantato pubblicamente e senza pudori per forma violenta che assume, perchè altro non è che una violenza di rimando a quella subita (gun of Brixton).
Persino nella sua espressione a tutti nota come la più commerciale, quella dei Sex Pistols, Malcom Mclaren non inventa nulla di campato in aria, si limita a decodificare e a rendere commerciabili tutta una serie di pulsioni palpabili e presenti a monte nell'aria del Regno unito dalla fine delle sdolcinate illusioni hippy. Nel suono abbiamo l'evoluzione, non più la scimmia abbruttita e aggressiva del vecchio rock americano, punk si allarga, punk è contagio, di più è contaminazione. Forte della sua carica rivoluzionaria, il punk esce dai recinti dei vecchi giri di chitarra e basso in 4/4 e comincia a fagocitare ogni suono, influenza, stile.
Tutto è convertibile e buono all'uso, persino i suoni soft delle prime tastiere elettroniche diventano acide lame sgradevoli a coloro che cercano un melodico accompagno a sorpassate liriche amorose di cui il momento non ha più bisogno. Sono gli Stranglers, i Lord of the new churc, figli del punk della prima generazione che sta già divorando i suoi figli.

Punk in quanto rottura delle regole, non può avere una regola, in quanto distruzione e negazione degli stili, si insinua in tutti gli stili, per mostrarne il loro lato selvaggio, per oltraggiarli e oltraggiare chi li ascolta. A distanza di 30 anni ci si chiede con un sorriso cosa avranno pensato Frank Sinatra e il suo pubblico bene di gestori di casinò e famiglie middle class in gita domenicale a Las Vegas, sentendo l'inno del perbenismo autocratico americano "My way" strappato dalle melodie calde e vellutate di "the voice" per essere sputato contro le pareti direttamente dalle casse nelle urla acide dell'interpretazione di quel pezzo di Nina Hagen. Siamo entrati negli anni ‘80, il punk si adatta, si evolve, si insinua nelle sue sfaccettature wave e decadenti alla cultura dell'effimero. Come al solito in ritardo, ma sbarca anche in Italia. E’ il momento della "attack punk records" etichetta indipendente, legata alla Crass records dalle chiare connotazioni politiche, il ritornello "io sono un anticristo" che canticchiava Rotten non va più bene, deve essere rielaborato nell'Italia del pentapartito che celebra 40 anni di governo Dc. Di un Craxi che assurge al potere svendendo gli interessi di classe delle origini del Psi, per creare la Milano da bere, lo yuppismo maccheronico,i rolex e le modelle che affollano i letti dei radical chic illuminati che seguono i passi di Agnelli e si rilassano con Pasolini, tutto sembra un onirico palazzo dei divertimenti con le fondamenta di argilla che preserva se stesso e i suoi nuovi valori ben accucciato all'ombra di un ombrello N.A.T.O. che in buona sostanza non disgusta nemmeno quel Berlinguer che già strizzava l'occhio al modernismo selvaggio bollando come "guerre tra poveri" le istanze che esplodevano qua e là sull'epidermide di un sistema economico, vetrina dell'opulenza occidentale che pur tuttavia non era sostenibile ancora per molto. Ora la cosa che fa scandalo non è proclamarsi anticristo, quello che succedeva nei salottini posti nel retropalco dei congressi di partito, avrebbe già di suo fatto inorridire qualunque coscienza, no ora il nemico era un altro e l'oltraggio era dichiararsi dalla sua parte. Andare coi propri desideri oltrecortina, e rifiutare quanto di opulento veniva offerto attraverso i teleschermi delle nuove tv commerciali private (nasce allora il circuito televisivo Mediaset) per "rifugiarsi sotto il patto di Varsavia con un piano quinquennale e la stabilità"..... il resto di quella storia la conosciamo tutti.





Dagli anni ‘90 in poi prende piede il fenomeno dell'apolitica militante, il crollo delle ideologie viene fatto passare come una liberazione e finalmente anche il punk, il figlio ribelle di una generazione arrabbiata perchè disillusa, può tornare all'ovile. Nasce il grunge da Seattle, con le sue lamentazioni malinconiche, le tematiche sono rigorosamente politically correct e persino l'estetica viene rielaborata e celebrata dai grandi stilisti. Ciò che doveva creare disgusto ed esprimere il diniego dei valori consumistici, finisce sulle passerelle dell'alta moda, e ciò che era nato sulle strade come libera espressione della propria creatività, finisce catalogato negli stilemi delle tendenze giovanili, i manualetti dei piccoli punk che indicano negozi e capi di vestiario da possedere a costi di mercato, il tutto con la finalità di avere "uno stile" e in conclusione il modo di vedere diventa moda.
Si fa largo attraverso la stravaganza preconfezionata il disperato desiderio di omologazione, che ci caratterizzi come ribelli, magari da stadio, in fondo una sana ribellione calcistica non richiede il tedioso e consapevole impegno della sovversione politica e può essere anche perdonata come veniale disobbedienza giovanile.

Marco P38punk

2 commenti:

  1. ciao bello.
    è un piacere vederti di nuovo in actions.
    Qui dopo due anni di lunga gestazione sta per uscire il nuovo cd.
    manco a dirlo ci auguriamo che casa perno torni sulle barricate anche come distro a cui affidarglielo.
    per ora ti lascio il link del nuovo sito vers. 2.0 www.p38punk.altervista.org
    un abbraccio.
    marco

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  2. Ciao Marco, per la distro al momento la vedo dura.
    Aspetto questo nuovo cd. A presto!

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