Era un uomo che fin dalla prima giovinezza si era ritirato in appartata solitudine, che il rimbombo della vita gli metteva paura, rifugiandosi tra i libri. Viveva in un casa di sua proprietà dalle stanze piene zeppe di libri e non aveva altra compagnia se non quella che essi gli procuravano. Poiché ardeva di passione per il Vero e il Bello, gli sembrava più che giusto vivere in stretto contatto con gli spiriti più nobili dell'umanità, piuttosto di esporsi al rischio di dover affrontare, nella vita là fuori, incontri casuali ed imprevisti. I suoi libri erano tutti del tempo antico, di saggi e poeti greci e romani, di cui amava la lingua e il cui mondo gli appariva così limpido e benfatto che, spesso, si capacitiva a stento del perché l'umanità aveva abbandonato questo nobile sentiero barattandolo con tutto quel caos. Questi antichi avevano già prodotto il meglio di tutti i campi della scienza e della poesia, qualcosina di più era sopraggiunta più tardi, Goethe ad esempio; ma se l'umanità nel frattempo aveva fatto dei progressi, ciò era accaduto in campi che non lo toccavano da vicino e che gli sembravano superflui e senza valore: nella costruzione di macchine ed armi, nella trasformazione della vita in morte e nel tramutare la natura in cifre o in denaro
Questo lettore conduceva una vita serena, tranquilla ed equilibrata. Passeggiava nel suo piccolo giardino declamando versi di Teocrito, raccoglieva le massime degli antichi, inoltrandosi felice nel mondo delle idee, soprattutto in quello di Platone. A volte avvertiva la povertà e l'angustia della sua vita, però, sapeva dagli antichi che la felicità non dipenda dalla molteplicità e che il saggio trova la salvezza nella fedeltà ai propri ideali e nel dominio di sé.
Una volta, questa vita serena subì un'interruzione dovuta al fatto che il lettore, durante un viaggio che aveva per meta la biblioteca dello stato confinante, trascorse una serata a teatro. Vi si rappresentava un dramma di Shakespeare, che egli, sì, conosceva fin da studente, ma solo per modo di dire, come le cose che si imparano a scuola. Sedeva nella grande sala in penombra, un po' oppresso e infastidito perché non amava la folla, ma ben presto si sentì attratto e trascinato dallo spirito di quest'opera poetica.
Vedeva bene che gli attori recitavano in maniera mediocre e non era affatto un amante del teatro, eppure, attraverso tutti questi ostacoli lo colpì un raggio, una forza, un fascino potente che non aveva mai conosciuto. Alla fine del dramma corse fuori stordito, proseguì il viaggio come stabilito e si portò a casa le opere complete del poeta inglese. Quindi non fece altro che leggere, sedeva come intontito e leggeva Lear, Otello, Romeo e tutti gli altri, e un turbine di passione, di demoniaco e vita fantastica penetrò in lui. I giorni trascorrevano nell'ebrezza, sentì con gioia che un nuovo mondo gli era stato dischiuso e per lungo tempo visse, in casa e in giardino, circondato dagli eroi di questo assurdo poeta che sembrava rivoltare da capo a piedi tutte e conclusioni cui erano arrivati i Greci, eppure egli era nel gusto e vinceva ogni resistenza.
Per la prima volta nel mondo del lettore si era aperta una breccia, da fuori irrompeva un'aria nuova nella sua classica tranquillità - o, forse, non si era ridestato qualcosa in lui, qualcosa che ora batteva con ali inquiete? Com'era strano tutto ciò! Com'era nuovo! Questo scrittore, anche lui morto da tempo, sembrava non aver alcun ideale, o, se ne aveva, erano del tutto diversi da quelli degli antichi; per questo Shakespeare l'umanità era, visibilmente, non già un tempio del pensiero, bensì un mare pieno di tempeste, dove si trascinavano uomini convulsi, beati nel loro essere portati via, ebbri del loro destino! Essi si muovevano come fossero costellazioni, seguivano ognuno la propria strada con slancio predeterminato, con impeto intatto o con assillo infinito, anche se il cammino portava all'abisso e alla rovina.
Finalmente il lettore, come uno che si sveglia dopo un baccanale, rientro in sé e quando, dopo aver riflettuto sul passato, ritornò ai suoi Greci e Latini, scoprì che questi avevano un altro sapere, erano un po' insipidi, un po' vecchi, un po' estranei. Allora tentò con alcuni libri di famosi scrittori contemporanei, ma non gli piacquero; sembrava che tutto girasse intorno a delle inezie senza importanza e tutto sembrava essere serio solo a metà.
La sete di nuove seduzioni e scostimenti non lo abbandono più. Chi cerca, trova. E così la prima cosa che trovò fu un libro di un norvegese, un certo Hamsun.
Un libro straordinario e uno scrittore straordinario. Quest'uomo sembrava aver vagabondato tutta la vita, va a dire che aveva ancora, solitario e frenetico, senza uno scopo, senza una fede, mezzo viziato e mezzo inselvatichito, all'aterna ricerca di un sentimento vero che, qua e là e solo per brevi attimi, credeva di trovare nella consonanza del suo animo con il mondo circostante. Tale scrittore non creava un mondo di uomini come Shakespeare, parlava per lo più di se stesso, eppure molti brani gli procurarono un'intensa commozione e un dolore amaro. Talvolta dovette mettersi a ridere tutt'a un tratto, in maniera finora sconosciuta: che bambino era questo scrittore, che ragazzo caparbio! Ma era stupendo, e chi lo leggeva sentiva cadere briciole di stelle e udiva il tuono di incendi lontani.
Poi l'uomo dei libri trovò un grosso volume che si intitolava Anna Karenina, e poi le poesie di Richard Dehmel. E un po' più tardi trovò i libri di Dostoevskij. Da quando aveva cominciato con Shakespeare, era come se la letteratura lo rincorresse, come se qui e là, non appena cominciava a sentire un vuoto, gli andasse incontro come per magia proprio ciò che in quel momento poteva parlargli, che poteva rapirlo. Pianse e passò notti insonne sopra questi libri russi, gettò lontano Orazio e diede via molti dei vuoi vecchi libri. Gliene capitò uno tra le mani, in latino, che prima non aveva tenuto in gran conto. Adesso lo mise da parte e presto lo lesse, erano le confessioni di Agostino, per poi ritornare a Dostoevskij. Un giorno, verso sera, quando si era stancato a furia di leggere gli facevano male gli occhi (non era più tanto giovane), si mise a riflettere.
Sopra un'enorme libreria, in lettere dorate, era incisa quella massima greca che significa "Conosci te stesso!".
Dentro di lui iniziò un intenso lavorìo: perchè egli non si conosceva, da lungo tempo non sapeva più nulla di sé. Ora ripercorse ogni traccia ancora presente nella sua memoria, ricercò con fervore i tempi in cui un verso di Orazio lo aveva affascinato, un'ode di Pindaro lo aveva reso felice. Allora, grazie agli antichi, era sorta in lui la cognizione di qualcosa che si chiama umanità: attraverso i poeti era stato eroe, sovrano, saggio, aveva fatto leggi e leggi aveva osservato e lui, l'Uomo, era uscito con meravigliosa dignità fuori dal caos della natura inanimata, verso la chiara luce.
Adesso tutto ciò era distrutto, svanito per sempre.
Non aveva solo letto, e con piacere, storie d'amore e di briganti, no, egli aveva amato, ucciso, pianto, peccato, riso, era caduto negli abissi del delitto, della miseria, degli istinti e dei piaceri folli e volubili, tramante di delizia e paura aveva sguazzato nell'orribile e nel proibito!
Le sue riflessioni non diedero molti frutti. Con smania febbrile, si riattaccò di nuovo a libri strani. Respirò avidamente l'aria viziata delle storie eccitanti di Oscar Wilde, si perse nella morbosità malinconica e scettica di Faubert, lesse poesie e drammi di poeti giovani e giovanissimi, che sembrano essere nemici mortali di tutto ciò che è ordinato, greco e classico, che predicano la ribellione e l'anarchia, che glorificano l'orrido e se la ridono del terribile. E trovò: anch'essi avevano in qualche modo ragione, anche questo faceva parte dell'uomo, anche questo doveva essere. Era una menzogna sottrarsi al caos sanguinoso della vita.
Seguirono un grande rilassamento e un'enorme stanchezza. Non c'erano più libri che gli venissero incontro, dai quali lo chiamassero cose nuove e possenti.
Era malato, si sentiva vecchio e truffato. Un sogno lo illumino. Sognò: stava costruendo un enorme muro con tantissimi libri. Cresceva alto, vedeva solo quello, il suo compito era di accatastare qui tutti i libri del mondo in una grande costruzione. Improvvisamente una parte della costruzione cominciò a oscillare, i libri scivolavano giù, cadevano con fracasso nel vuoto, una strana luce irrompeva attraverso i buchi spalancati, e al di là del muri di libri vide qualcosa di spaventoso; nella luce e nel fumo vide un caos immenso, un intrico di figure e immagini, persone e paesaggi, uomini che morivano e donne che partorivano, bambini e animali, serpenti e soldati, città in fiamme e navi naufragate, grida e urla selvagge di gioia risuonavano confuse, sangue scorreva, fiumi di vino, fiaccole dalla luce accecante e sfacciata - ed li si svegliò e balzò su, il cuore oppresso da un peso tormentoso; e quando, sconvolto, si ritrovò in piedi alla luce della luna nella sua camera silenziosa, quando riconobbe gli alberi dietro la finestra e il libro del comodino, allora seppe e comprese tutto in un baleno!
Era stato ingannato, era stato defraudato di tutto! Aveva letto, voltato le pagine, divorato carta; ah, e là dietro, dietro l'infame muro di libri c'era stata la vita, cuori erano bruciati, passioni si erano scatenate, sangue e vino erano corsi, erano accaduti l'amore e il delitto. Ed egli non aveva percepito niente di tutto ciò, nulla era stato suo, non aveva avuto nulla tra le mani, nient'altro che sottile piatta ombra e carta! Non ritorno subito a letto. Correva attraverso la città, dopo essersi vestito in fretta e furia, attraverso cento strade illuminate dai lampioni, guardava dentro mille finestre nere e cieche, origliava a cento porte chiuse.
Arrivò il mattino, le strade si svegliavano, come un ubriaco superstite errava nella livide luce del mattino, vicino al crollo. Incontro una ragazza pallida, debole, e dall'aspetto malaticcio, egli le cadde ai piedi, lei lo prese con sé. Sedeva nella sua cameretta, su un letto misero e disfatto, al di sopra del quale era appeso un ventaglio giapponese pieno di polvere e ragnatele. Egli sedeva e la guardava giocare con i soldi che le aveva dato, e di nuovo le prese la mano e disse: "non lasciarmi solo! Aiutami! Io sono vecchio, non ho nessuno al di fuori di te; resta con me! Forse mi aspettano solo malattia e morte, ma almeno questo voglio provare, voglio almeno soffrire e morir da me, con il mio sangue e il mio cuore. Come sei bella! Ti fa male se ti abbraccio? No? Oh, tu sei buona. Pensa, sono stato sepolto per tutta la mia vita, sepolto sotto una montagna di carta! Sai cosa si prova? No? Tanto meglio! Oh, vivremo ancora, noi vogliamo vivere. Si è già alzato il sole? Vedrò il sole per la prima volta".
La ragazza sorrideva, accarezzava le sue mani irrequiete e stava ad ascoltare. Non lo capiva, e nella grigia luce mattutina appariva malandata e infelice. Anche lei aveva camminato tutta la notte per le strade della città. Sorrise e disse: "Si, si, ti aiuterò. Stai tranquillo, ti aiuterò".
Hermann Hesse
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