L’Italia non ha ancora raggiunto i livelli tragici della crisi abitativa americana, ma la speculazione edilizia da decenni colpisce l’Italia. Con la Brigata Antisfratto siamo impegnati in Torino e provincia nel bloccare i sempre più frequenti sfratti. L’ATC (Agenzia Territoriale per la Casa) qui a Torino da tempo provvede a sfrattare le case popolari per poi rivenderle ai privati. Sempre a più persone viene negato il diritto alla casa e gli acquisti degli immobili è rimasto un privilegio da classe media.
Anni fa avevo trascritto questo stralcio di un bellissimo libro che parlava della lotta per la casa avvenuta a Nichelino. 40anni dopo siamo rimasti in pochi a lottare per il diritto alla casa a Nichelino. Nelle nostre difficoltà siamo riusciti a bloccare sfratti, costruire un movimento e trovare un tetto per chi ne aveva bisogno. Un risultato eroico in una città con un sindaco (PD) indagato per abuso edilizio e una giunta collusa con i costruttori. In una città dove a farla da padroni sono i costruttori, i re del mattone, la vita per la povera gente risulta pericolante. Anche per questo desidero riproporre questo articolo che in parte ricorda una storica lotta dei compagni di Nichelino e dall’altra racconta le radici e la provenienza storica e culturale della nostra popolazione.
Tratto dal paragrafo "Meridionali" del libro "Torino 1969 - Il giorno più lungo, la rivolta di Corso Traiano" di Diego Giachetti
Sul finire degli anni Sessanta, Torino e i comuni della cintura hanno una trasformazione profonda. Aspirati dal possente respiro di quel polmone in espansione produttiva che è la Fiat, migliaia di operai provenienti dalle regioni meridionali hanno raggiunto la città e i comuni limitrofi. Altri sempre meridionali emigrati in Germania e in altre nazioni dell'Europa del Nord, hanno colto l'opportunità di avvicinarsi un poco di più alla famiglia che hanno lasciato al Sud, e si sono trasferiti a Torino, dove il lavoro non manca. La grande impresa Fiat, ma anche tantissime fabbriche dell'indotto e le imprese edili, dopo aver ormai prosciugato da anni il bacino di manodopera costituito dai contadini delle province piemontesi e dagli immigrati veneti, hanno ancora bisogno di nuova forza lavoro. Si comincia quindi ad attingere abbondantemente nel meridione tra popolazioni abituate fin dal secolo precedente a emigrare in cerca di un lavoro. Questa volta però non si va in Svizzera, Belgio, Francia o, oltreoceano: si va al Nord, o in continente per gli abitanti delle isole.
Più del 50% degli immigrati che vivono a Torino sono di origine meridionale e sono soprattutto giovani; il 37 % ha un'età compresa tra i 15 e i 24 anni. Vengono dalla Sicilia (16,4%), dalla Puglia (15,5%), dalla Calabria (7%), dalla Campania (6,6%), dalla Sardegna (4%), dalla Basilicata (3,7%).
Alcuni dati demografici danno immediatamente un'idea di quanto è accaduto in termini di aumento della popolazione.
Nel 1951 Torino aveva 700.000 abitanti e la sua prima cintura qualche migliaio. Nel 1969 gli abitanti della città più quelli della prima e della seconda cintura ammontano complessivamente a 1.600.000. Quartieri cittadini tradizionalmente abitati da operai si sovraccaricano in quegli anni di una massa proletaria senza precedenti. Mirafiori Sud passa dai 18.747 abitanti del 1951 ai. 119.569 del 1969, Lingotto da 23.753 a 42.798, Santa Rita da 22.936 a 88.563. Nei primi tre mesi del 1969 la popolazione di Torino cresce di 8.989 unità, di cui 7.103 nuovi immigrati. Nei 23 comuni della cintura in due mesi la popolazione è aumentata di 3.830 unità, di cui 3.123 nuovi immigrati.
L'engelsiana questione delle abitazioni si fa esplosiva, la costruzione di case popolari non riesce a tenere il passo con la domanda di alloggi da affittare. Similmente agli immigrati extracomunitari odierni, migliaia di meridionali vivono in condizioni disumane dal punto di vista igienico e abitativo, nelle soffitte e negli scantinati fatiscenti del centro storico; taglieggiati da proprietari senza scrupoli, dormono su letti improvvisati, usati in alcuni casi da più operai, secondo la ripartizione turni della fabbrica. Altri, in attesa di una sistemazione, dormono in aule vecchie e sfasciate nei pressi della fabbrica o alla stazione ferroviaria. Chi ha la fortuna di trovare una casa degna di questo nome paga un affitto elevato rispetto al salario che guadagna, più di l0 mila lire per vano dalle 30 alle 40 mila lire per chi ha una famiglia e vive in un appartamento; comunque non ha modo di difendersi da richieste di aumento di affitto, e vive nell'incubo di essere sfrattato da un momento all'altro. Chi non ha famiglia o parenti che lo ospitano mangia come e dove può pastasciutta riscaldata nelle trattorie, la stessa che si portano in fabbrica nel baracchino per riscaldarla di nuovo all’ ora di pranzo; alcuni cominciano a scoprire l'esistenza delle mense universitarie e vi accedono poiché i controlli sono molto allentati in quanto sono specie di "zone liberate" dal movimento studentesco.
Nell'insieme la città reagisce spesso con fastidio e incomprensione delle ragioni che sono alla base di questo degrado della vita sociale e non mancano in quegli anni cartelli con la dicitura "Non si affitta ai meridionali". La città appare loro ostile e diffidente, non hanno radici, non ci sono relazioni sociali consolidate, non c'è appartenenza, non c'è identificazione.
L'impatto con questa città è stato "un disastro", ricorda Andrea Papaleo, capitato a Torino proprio nel mese di gennaio; a lui, abituato a vivere "in un paese dove c'era sempre il sole", sembra di essere arrivato in un altro mondo dove, a causa del freddo, è impossibile chiacchierare con gli amici per strada e i vetri dei bar appannati gli trasmettono "un senso di angoscia incredibile". È difficile adattarsi, gli operai meridionali si sentono incompresi - si lamenta un pugliese - guardati con sospetto, è per questa ragione che "la gente meridionale è molto arrabbiata". Trascorrono il loro tempo libero al bar, molti si sentono soli, non hanno amici, non hanno parenti e conoscenti, soffrono per la mutilazione di una separazione violenta tra i sessi, fatta di miseria e di centinaia di chilometri di distanza [...] senza possibilità materiale di trovare una compagna.
I dipendenti Fiat degli stabilimenti torinesi dai 50.000 che erano nel 1950 sono diventati 128.000 nel 1968 e 140.000 l'anno seguente; le auto prodotte per ogni operaio passano dal 2,1 % del 1950 all' 11,8% del 1968, il numero di vetture prodotte in un anno sale da 118.000 a 1.470.000, circa seimila al giorno; il fatturato tocca la quota dei 1.330 miliardi rispetto ai 180 dei primissimi anni Cinquanta; gli utili netti nel 1968 ammontano a 34 miliardi e mezzo.
Negli stabilimenti lavora una classe operaia composita, un parte appartiene ancora al vecchio ceppo dell' operaio di mestiere torinese, la cui qualifica corrisponde ancora a un saper fare reale che si esercita nel corso dell'attività lavorativa; altri invece sono lavoratori delle linee di montaggio, non qualificati, tutti meridionali. Qui la rotazione della manodopera è abbastanza elevata, il 10% ogni anno lascia la Fiat e cerca un altro lavoro, circa 1.000 operai al mese si licenziano; su 100 nuovi assunti 40 abbandonano dopo poco. La percentuale degli abbandoni cresce nelle officine dove il lavoro è più pesante, monotono, ripetitivo.
Per le categorie più elevate il salario arriva fino alle 140 mila lire; per la stragrande maggioranza dei lavoratori appartenenti alla terza categoria esso oscilla dalle 100 alle 110 mila lire. Certo chi lavora in Fiat nominalmente percepisce un salario più elevato rispetto a quello dei metallurgici di altre province del Piemonte e di altre piccole fabbriche di Torino, ma è uno stipendio difficilmente raggiungibile, perché solo pochi, a causa dei ritmi infernali e del carico di lavoro, riescono a lavorare tutti i giorni del mese. Infatti l'assenteismo ruota attorno al 12-13%, che vuol dire 5-6 mila operai che ogni giorno non si presentano in fabbrica; d'estate la percentuale tocca anche punte del 25%. Si tratta in media di tre - quattro giornate di mutua al mese a cui i lavoratori ricorrono per staccare un attimo, per riposarsi, "per non morire" dicono. Si tratta di lavoratori che non riescono "a tenere dietro ai ritmi di lavoro massacranti" - afferma un operaio - che restano "a casa per conservare la propria esistenza fisica".
All'inizio del 1969 la Fiat ha ancora bisogno di manodopera, per attivare la nuova fabbrica di Rivalta deve assumere 15 mila operai e nuovamente l'attinge al Sud mandando i suoi procacciatori di forza-lavoro nei paesi e nelle città della Campania, della Sicilia e dell' Abruzzo. Arrivano al Nord e si sistemano, se così si può dire, nei quartieri periferici, nei comuni della cintura, o nelle topaie del centro storico, aggravando situazioni sociali già precarie e difficili. Significative sono due testimonianze, riportate sulle pagine de «L'Unità» dell' 10 maggio 1969, di due meridionali appartenenti all'ultima ondata migratoria:
“Siamo in cinque in una stanza decrepita: pensa che l'intonaco che si scrosta per l'umidità mi cade in testa mentre dormo! Pago per dormire e per l'uso di un fornello a gas 14 mila lire al mese.”
“Dormiamo ammucchiati in stanze piccole e umide, paghiamo l'iradidio, dalle l0 alle 15 mila a persona. Noi tre dormiamo in una stanza così piccola che al mattino quando ci si sveglia dobbiamo smontare il letto se vogliamo girare. I vestiti, la roba nostra, siamo costretti a lasciarla in valigia, perché non ci sono armadi, o se ci sono non si possono aprire le portiere, tanto è stipata la stanza. In tutta la pensione c'è un gabinetto solo per 20 persone e, per lavarsi o per andare al cesso, a qualsiasi ora occorre fare la coda..”
Quindicimila nuovi immigrati a Torino significa che entro l'anno arriveranno almeno altre cinquanta - sessantamila persone, in quanto ogni immigrato, appena sistemato tende a chiamare al Nord la moglie, i figli, i parenti e i conoscenti in cerca di lavoro. Appena la notizia si diffonde in città e nei comuni limitrofi i padroni di casa aumentano gli affitti del 30% e iniziano a sfrattare gli inquilini che non sono in grado di sostenere la nuova spesa. Questa volta però la reazione di chi vive nelle case d'affitto diventa protesta organizzata, in poco tempo nei quartieri e nei "comuni della cintura sorgono spontaneamente dei comitati di inquilini che nulla hanno a che vedere con deleghe di partito ma sono l'espressione di assemblee popolari riunitesi casa per casa, lotto per lotto che, in poco tempo, danno vita a una rete di contropotere dal basso che occupa lo spazio d'intervento degli enti locali impotenti di fronte al monopolio e alla speculazione edilizia, oppure obbedienti e conniventi con esso.
Esemplare in merito è la lotta che si sviluppa nel comune di Nichelino che, a causa dell'immigrazione massiccia, è diventato in pochi anni una specie di dormitorio operaio alle porte di Torino, abitato da una popolazione composta da un 60% di meridionali, 23% di veneti e il rimanente 17% provenienti da altre regioni. La maggior parte di loro sono giovani tra i venti e i quarant'anni; i bambini sono circa 5.000 mentre i posti negli asili nido sono 380 e le aule delle scuole dell' obbligo sono 106 per 175 classi. Su una popolazione attiva di 15 mila persone, l'80%, cioè 12.000 sono operai. Solo 1.700 hanno trovato lavoro vicino a casa, gli altri, tra cui un folto gruppo di lavoratori Fiat, che sono 5.200, sono costretti a raggiungere il posto di lavoro a Torino, Moncalieri, Rivalta, Carmagnola, Airasca. Il tempo che essi impiegano per raggiungere il posto di lavoro varia da un massimo di quasi un'ora abbondante a un minimo di 30 minuti. In media circa due ore al giorno se ne vanno solo per andare e tornare dalla fabbrica. La spesa per l'affitto porta via al 70% dei lavoratori da un terzo fino alla metà del salario, mentre il 60% di coloro che hanno acquistato l'alloggio con un mutuo ogni mese si vedono decurtato metà stipendi.
La richiesta di aumento degli affitti da parte dei proprietari di case e l'arrivo delle prime lettere di sfratto provocano una energica protesta che viene raccolta e guidata: dai sedici comitati di inquilini che si sono formati nel mesi precedenti.
Il 13 giugno 1969, al termine di una manifestazione contro il caro-fitti, i partecipanti entrano tutti nel comune e lo occupano, dopo che hanno rifiutato di formare una delegazione per le trattative. Decine di operai, studenti e lavoratori siedono da quel giorno e per dodici giorni consecutivi in assemblea permanente, decisi a mantenere l'occupazione fino a quando il sindaco democristiano non si recherà in Prefettura, assieme a delegazione dei comitati inquilini, per chiedere l'emanazione di un provvedimento straordinario di blocco degli affitti e degli sfratti come affermano i due grossi striscioni posti sulla facciata del Comune: Blocco generale degli affitti, Blocco generale degli sfratti.
Dal municipio occupato partono per Hanoi telegrammi di plauso per la costituzione del governo rivoluzionario del Sud Vietnam, per il Ministro degli Interni, che viene sollecitato a trovare in fretta una soluzione al loro problema, e alla CGIL perché inizi una lotta radicale sulla questione degli affitti e dell'equo canone. L'emblematica lotta dei comitati inquilini di Nichelino, che si svolge contemporaneamente a quella in corso alla Fiat, rompe l'isolamento forzato delle lotte operaie dentro i cancelli, quel "cordone sanitario" che i mezzi di comunicazione borghesi creano intorno ai muri degli stabilimenti. Il senso della lotta, dentro e fuori, nella fabbrica e nel luogo dove si vive il resto della giornata, comincia a unirsi in una sintesi di ribellione verso l'intero sistema sociale e le sue regole, superando settorialità e specificità, trasformandosi in richieste di cambiamenti radicali e sostanziali.
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